PROSPETTIVE PEDAGOGICHE
PROSPETTIVE PEDAGOGICHE
A partire dai quattro elementi: aria, acqua, terra, fuoco
Troviamo questa concezione anche nella dottrina dei chakra, fondamentale
per le correnti di pensiero orientali: i sette chakra sono le sette fonti di
energia che caratterizzano l’essere umano. Quattro dei sette chakra rappresentano elementi dentro
l’essere umano.
Allora una prima idea è questa: i quattro elementi non sono fuori di
noi!
Parlare di acqua, aria, terra e fuoco non significa parlare di qualcosa
che sta là, vuol dire parlare di qualcosa che è contemporaneamente dentro e
fuori: io ho il fuoco dentro di me, ho l’acqua dentro di me…
Tutto questo non può portare a un antropocentrismo, che significa
mettere l’uomo al centro: al centro, anche nella Laudato si’ non c’è
l’uomo, ma la relazione tra uomo e creato. Non è un pensiero antropocentrico
quello di papa Francesco, come non lo era quello di san Francesco, che è stato
il primo pensatore occidentale a capire che il problema è la relazione
dell’uomo con il creato; allora il Cantico delle creature mette al
centro non l’uomo ma la capacità che l’uomo e la donna hanno di intessere dei
rapporti con gli elementi. Quindi non più l’uomo che domina, ma l’uomo come
fascio di relazioni.
Gli elementi non sono da mettere sugli scaffali, come spesso facciamo
con la natura. Facciamo i piani regolatori delle città: un po’ di verde qui,
arginiamo il fiume, ma tutto è dentro di noi e non soltanto fuori e ogni
intervento sull’esterno colpisce anche l’interno.
C’è un’altra concezione sbagliata, l’idea che i quattro elementi siano
nettamente separati: il rapporto tra gli elementi, il rapporto con tutto ciò
che la natura ci dà e il nostro rapporto con la natura è più simile al lavoro
di Escher, Metamorfosi, in cui tutto
cambia completamente pur rimanendo se stesso. Ogni cosa si muta, pur mantenendo
la sua identità proprio nel momento in cui entra in relazione con l’altro e con
gli altri.
Gli elementi non si lasciano mai cristallizzare, la natura non si mette
mai sotto una teca di vetro, non sta in una tassonomia, non è in un capitolo
del libro di zoologia, né in una delle categorie di Linneo, per quanto
fondamentali – questo è solo un nostro modo, anche utile,
di interpretare la natura.
Di fronte alla natura c’è lo stupore, la bellezza ma c’è anche lo
schifo, ci sono anche la paura e il terrore. Quando lavorerete con i bambini e
i ragazzi sulla natura, non fate l’errore di vedere solo il lato bello,
positivo ed emozionante, perché la natura è anche violenza, è anche spavento e
repulsione. La natura puzza – e non è negativo. Non possiamo educare
soltanto a un tipo di approccio con la natura, educhiamo i bambini e i ragazzi
a provare tutte le emozioni. Chi ha detto che la paura e lo schifo sono
negativi? Lo schifo ci ha permesso di costruire le fogne e le fogne ci hanno
permesso di non prendere il colera.
La natura è tutto, è a 360°, e i percorsi educativi non possono
tralasciare niente. La natura non si compra al dettaglio.
LA TERRA
Cosa è la terra?
La terra è fondamento perché impariamo a camminare sulla terra e ciò ci
dà un’idea di sicurezza, di solidità, ma anche di difficoltà (pensiamo a un bambino
che cade, a inciampare, a un sasso sul nostro cammino).
Il nome dell’elemento è uguale al nome del pianeta che ci ospita e in
ebraico adamà (terra) è la parola dalla quale trae origine Adamo; la
terra è veramente importante: è uno dei quattro elementi, è il nostro pianeta,
è l’uomo. Essa è davvero il fondamento, ma come tutti i fondamenti non è facile
e non è “liscio”. Nulla è facile, imparare a camminare è difficile: per questo
è una conquista. «Bambini, imparate a fare le cose difficili!» È importante
proporre obiettivi difficili, sfide enormi compiendo le quali ci si può fare
anche male; se noi continuiamo a semplificare tutto, a proporre percorsi
iperprotetti, andiamo contro la nostra natura che include la propensione al
rischio, chiaramente calcolato.
La terra è fondamento, rischio, avventura e sfida, è possibilità che le
cose non vadano bene.
Ma la terra è anche nutrimento, se noi sappiamo alimentarla – come abbiamo imparato in occasione di Expo 2015. Il nutrimento che ci
dà la terra è una risposta al nostro comportamento: non si tratta solo di
coltivare e consumare ciò che la terra produce, ma anche di rispettarla e di
“averne cura”.
Nella Grecia antica non si poteva mai vuotare il piatto e non si poteva
mai vuotare completamente il calice di vino, perché era il cibo degli eroi e si
doveva versarlo per terra; nel Levitico
c’è l’idea che non si possano cogliere tutte le spighe e l’uva sui bordi del
vigneto e del campo perché appartengono all’orfano, alla vedova e al
forestiero. Come dire oggi che un bar debba lasciare delle brioche all’aperto,
in modo che qualche migrante le possa prendere gratis; per un cristiano
dovrebbe essere un comportamento automatico.
La terra ci risponde non se sappiamo coltivarla, ma se sappiamo
rispettarla. E rispettare la terra vuol dire rispettare gli ultimi. La terra è
morale, la morale è dentro le piante. È inutile andare a cercarla nei grandi
princìpi: la morale è fatta degli elementi, è fatta di frutti. Allora è molto
importante sapersi collocare rispetto alla terra con un atteggiamento di cura
competente, ma anche morale nel rispetto della varietà, della distribuzione e
dell’approccio plurale ai suoi frutti.
La terra poi non è solo quella che vediamo in superficie, essa è
profonda, ha un “sotto”. Sotto questa crosta che ci permette di camminare, c’è
quello che davvero conta: ci sono i tesori nascosti delle favole, ci sono i
sassolini, ci sono i vermi… insomma, c’è tutta la profondità che c’è anche
dentro di noi. Sotto la crosta della coscienza c’è l’inconscio, ci sono la
violenza, l’aggressività e l’odio – la differenza è tra chi controlla queste
pulsioni e chi le lascia esplodere. Sottoterra ci sono i vermi, c’è la cacca,
c’è la puzza. La terra è tob
(che in ebraico contiene in sé sia l’accezione del “bello” che quella del
“buono”), è buona ed è anche giusta. Certo la nostra relazione con ciò
che sta sottoterra è diversa da quella con la farfalla che vola in cielo, ma
bisogna entrare in relazione anche con le cose meno “belle”. Come le radici che
si intrecciano con quelle degli altri alberi e creano uno straordinario
intrico, anche il mondo è un “intreccio” tra la natura e la natura umana.
Ne Il viaggio al centro della terra di Jules Verne c’è un
passaggio in cui il protagonista sente il silenzio: e lo definisce proprio
silenzio, non come sulla terra dove c’è sempre brusio. Va sotto terra per
ritrovare il silenzio, riflettere su di sé, sulla propria vita e sulla propria
anima.
Leggete La tana di Franz Kafka, in cui l’autore racconta la
storia di una talpa che costruisce la sua tana, utilizzando in modo
straordinario il punto di vista dell’animale, e vedrete cosa vuol dire stare
sottoterra con tutte le angosce che ne derivano. L’animale si sente contento,
si sente protetto, poi avverte degli scricchiolii.
Andiamo a scoprire quello che c’è sotto, sapendo che potrebbe anche non
piacerci, suscitare delle reazioni negative.
La terra può essere anche paesaggio, solo selvaggio oppure antropizzato,
che includa uomini e donne.
Qual è il rapporto di noi umani con la natura?
Può essere di contemplazione, ma quando noi ci siamo non possiamo
autoeliminarci. Perché l’uomo dovrebbe estinguersi?
L’approccio corretto dell’uomo alla terra è intervenire, perché non
possiamo non farlo (anche solo respirando interveniamo), ma dobbiamo
intervenire osservando la terra, rispettandola.
Marcel Proust, nel primo volume de Alla ricerca del tempo perduto, racconta del giardino della nonna
in cui c’era un bellissimo roseto. La nonna ogni tanto passava e staccava una
rosa, come fa la mamma quando il bambino torna dal parrucchiere con i capelli
troppo schiacciati e lei lo spettina un po’ per dare naturalezza.
La natura ha previsto che quel bocciolo dovesse essere lì, e invece la
nonna staccandolo dona naturalezza. È un paradosso? No! Perché anche io sono
natura, anche la nonna è natura ed è un elemento naturale che aiuta il roseto a
essere più roseto: è la grande dialettica uomo-natura.
La natura poi ci sporca.
I bambini devono tornare a casa dall’oratorio sporchi perché vuol dire
che si sono divertiti. L’unico modo di conoscere il mondo è sporcarci con il
mondo; vale anche per chi pratica discipline umanistiche, ci si sporca con la
filosofia: se uno non si sporca con Hegel non lo capisce, se uno non si sporca
con Leopardi non lo capisce e questo vale per tutto il nostro rapporto con il
mondo.
Mettere al centro questo tema vuol dire che i bambini e i ragazzi si
devono sporcare e bagnare, a costo di prendersi un piccolo raffreddore,
altrimenti non parlate di natura, fategli leggere il Vangelo di Giovanni in greco (che comunque deve sporcarti, ma un
po’ meno e al massimo di inchiostro).
L’ACQUA
L’acqua cosa ci fa venire in mente? Che è l’elemento dal quale siamo
nati e nel quale siamo stati a sguazzare come dei simpatici pesciolini per 40
settimane. I nostri inizi sono acquatici. Non ce lo ricordiamo, ma quando
d’inverno ci facciamo un bel bagno caldo con una musica di sottofondo mentre
fuori fa freddo e ci immergiamo completamente, oppure quando stiamo sotto le
coperte tutti imbacuccati, oppure quando riceviamo un abbraccio particolarmente
caloroso torniamo in questa situazione. L’acqua è la nostra origine, lo
sappiamo tutti ma ogni tanto è bene ricordare. Siamo decisamente più liquidi
che solidi, come ci spiega la scienza, e la terra per noi è una conquista, come
per gli anfibi. Io ho dovuto conquistare la terra, mentre nell’acqua ci sono
nato. È un elemento fondamentale, quello dell’origine; infatti moltissimi riti
d’iniziazione prevedono l’acqua: battesimo cristiano, riti dell’Africa… L’acqua
è presente in tutti i riti di nascita e in quelli di morte. Anticamente i
cimiteri venivano costruiti al di là del fiume perché le anime dei defunti non
potevano attraversare l’acqua. L’acqua segna l’inizio e la fine, benché
sappiamo che non c’è inizio né fine, che tutto è ciclico, sia che si creda
all’eterno ritorno, alla risurrezione della carne, sia che non si creda a
nulla: il mio corpo non finisce, perché si decompone e va ad alimentare le
piante, diventa concime e cibo.
E l’acqua presidia i confini che non sono confini. C’è chi vuole
costruire i muri tra i confini e c’è invece chi capisce che i confini sono
acquatici, che non vuol dire che non esistono. Chi vive sul Po sa che c’è
differenza tra il versante lombardo e il versante emiliano, ma è il fiume che
segna il confine, il fiume fa quello che vuole, scorre, esce, poi rientra e poi
riesce. Il Nilo, quando straripa “bene” rende fertile il terreno e quando
straripa “male” può uccidere.
L’acqua ci stupisce nell’infinitamente piccolo, nella goccia che, vista
al microscopio, ci rivela un mondo straordinario, e ci stupisce nel grande,
nell’oceano, nel maremoto. E noi siamo lì a metà.
Avete mai visto in rete quei video che partono dalle estremità delle
galassie e poi zoomano fino ai protoni e ai neutroni? La cosa straordinaria è
che la prima immagine è uguale all’ultima, il confine della galassia è identica
a ciò che c’è dentro ai confini dell’infinitamente piccolo.
Cos’è l’uomo?
È un bambolotto tra due infiniti, tra l’infinitamente piccolo e
l’infinitamente grande. È una figura di frontiera, di passaggio. Cosa può fare
l’uomo? Prendere un telescopio e guardare nell’infinito oppure un microscopio
ed entrare in un altro infinito. E l’acqua ci dà questa idea nella goccia e
nell’oceano.
L’acqua l’abbiamo addomesticata, portata nella nostra domus.
Pensiamo all’Alhambra di Granada, che è un vero inno all’acqua. Le fontane sono
un modo per prendere un elemento e portarlo dentro casa, ma non per sfruttarlo,
non per venderlo (i lavatoi sono sempre stati liberi). Uno storico francese
sostiene che la parola chiacchierare deriva dal fatto che le donne alle fontane
parlavano tra loro e “chiacchierare” dovrebbe far risuonare il rumore dell’acqua
che zampilla dalla fontana. Non so se sia vero, ma la fonte è sempre stata
luogo di aggregazione, soprattutto femminile: è un luogo di contropotere,
perché mentre i maschi erano in comune o in chiesa a tessere le reti del
potere, le donne erano lì che lavavano, chiacchieravano e costruivano delle
“contro-reti” di pettegolezzo. Quest’ultimo può essere un fortissimo strumento
di contropotere e trovava sfogo dove c’era l’acqua, che con il suo
chiacchiericcio tirava fuori ciò che è più profondo.
Una ragazza “acqua e sapone” non è tanto colei che non si trucca, ma una
ragazza trasparente. «Sei chiaro come l’acqua. L’acqua è verità.» Non è vero:
l’acqua è una gran mentitrice, ci racconta un sacco di bugie. L’acqua ci
imbroglia e inganna noi così come ha ingannato Narciso, che nel suo riflesso
pensava di vedere un altro adolescente davanti a sé, nel fiume, e si è buttato
per raggiungerlo, morendo annegato. Questa è la continua dialettica della
natura: una cosa non è mai solo una cosa, come dimostra bene il pensiero
orientale; noi invece leggiamo male Platone e Aristotele pensando che una cosa
o è A o è B. La natura invece non è mai univoca, è sempre molteplice e
poliedrica, ci può ingannare. Nell’acqua si può annegare.
L’acqua è l’elemento più vicino a noi, ma crescendo diventa l’elemento
nel quale non possiamo vivere. C’è sempre la dialettica vita/morte,
possibilità/impossibilità, distanza/vicinanza eccetera.
E l’acqua è il limite. Noi possiamo imparare a nuotare ma fino a un
certo punto. L’oceano è il nostro limite e l’ha capito Alessandro Magno che ha
conquistato tutto, è arrivato davanti all’oceano e si è sentito impotente: se
anche l’avesse conquistato come avrebbe fatto a delimitarlo, a mettere delle
frontiere? Il mare è il nostro limite, ci fa capire che siamo dei bipedi poco
pelosi che possono accontentarsi di saper nuotare, ma l’acqua non si può
conquistare.
Anche il poeta John Keats l’ha imparato e sulla sua tomba ha fatto
scrivere il famoso epitaffio: «Qui giace un uomo il cui nome è scritto
sull’acqua». Ma attenzione: non viene disperso, cancellato, si divide in tanti
pezzettini e John Keats cambia forma.
L’ARIA
L’aria non è il nostro elemento, l’aria è un luogo proibito, da abitare
per un po’ e poi abbandonare; non è un caso che l’aria sia luogo del paradiso,
degli dèi, delle stelle intese come divinità. Noi collochiamo i nostri dèi
nell’aria perché non abbiamo le ali.
Gli uccelli, se avessero un paradiso, lo metterebbero in fondo al mare
perché il paradiso è il luogo del proibito, dove noi non possiamo accedere. Il
paradiso deve essere irraggiungibile, in excelsis.
Siccome noi non abbiamo le ali, tutto ciò che è su, in alto è positivo
(«Stiamo su di morale!»); pensiamo alle nostre labbra: il sorriso alza e la
tristezza abbassa, le lacrime scendono. C’è una questione corporea che è
connessa alle questioni culturali e spirituali.
Non si possono separare né contrapporre le questioni culturali e
spirituali da quelle fisiche. Pensate a Gesù, duemila anni fa: alla fine della
vita non ha fatto tanti discorsi, ma ha preso del cibo e ha dato da mangiare e
chiesto di sentire il profumo e il sapore del pane, l’asprezza del vino,
dopodiché ha fatto una grande teologia, ma l’ha fatta a partire dal corpo.
Non esiste una tematica senza corpo: è il tuo corpo che impara i limiti
di funzione connettendoli ai tuoi limiti di essere umano e allora diventi un
grande matematico. Leggete gli scritti di Einstein, di Hawking, della
Montalcini che vi raccontano la loro vita, che vi raccontano di cellule perché
se le sentono dentro. Non esistono due culture, umanistica e scientifica, ma
esiste l’umano. Poi occorrono le specializzazioni!
Il paradiso è in alto, lontano, però è anche accessibile, come dimostra
Dante.
Ma l’aria ha anche una dimensione più vicina a noi, l’aria è dentro di noi.
La respirazione è il processo di scambio con l’ambiente, ci fa capire che non
siamo isolati. Qual è la prima cosa che fa il bambino appena nato? Respira! Il
suo urlo fortissimo segna il passaggio da una situazione “liquida” nella quale
non c’era bisogno di scambio con l’ambiente, nella quale il bambino era la
mamma, a una condizione che lo fa diventare un individuo. L’individuo comincia
a essere tale quando inizia lo scambio con l’ambiente: noi nasciamo come
individui quando instauriamo una relazione. Se il bambino si chiude in sé,
muore. Il nostro primo atto è relazionale con l’ambiente e non di chiusura.
La respirazione, che ci dà il ritmo della vita, è un continuo mettere
dentro e buttare fuori.
Fino a 50 anni fa in Italia, quando una persona stava morendo, per
certificare la morte si prendeva uno specchio, lo si dava al bambino più
piccolo presente che andava a mettere lo specchio davanti alla faccia del
morente e se lo specchio si appannava voleva dire che la persona era viva,
altrimenti significava che era morta. Il bambino mostrava lo specchio a tutti e
poi iniziavano i riti funebri. Questo esprimeva la vicinanza del bambino con la
morte e con uno dei momenti più importanti della vita e rimanda a un’idea di
vita che è scambio con l’ambiente, mentre la morte è interruzione dello
scambio.
Oggi, in base a quanto stabilito dal Protocollo di Harvard del 1968, un
individuo è dichiarato morto quando il suo elettroencefalogramma diventa piatto
e l’esame viene ripetuto a distanza di un certo numero di ore.
È più sicura, così, la constatazione di morte? Sì! Quale concezione
della vita c’è dietro? Prima quella di “scambio”, ora quella di “corrente
elettrica”. Le macchine “funzionano”, non le persone. Ma se hai una concezione
della morte come interruzione di corrente elettrica, hai una concezione della
vita come un “ON/OFF” senza relazione. Che differenza c’è tra il testare lo
stato di vita di un paziente e il vedere che la batteria della vostra macchina
funziona? Fenomenologicamente nessuna – e questo entra nella cultura!
Noi abbiamo inventato l’aria condizionata e decidiamo noi quanto debba
essere calda o fredda. Il risultato è che non usciamo più.
Secondo una ricerca, i genitori per punire i bambini dicono loro di
andare a giocare fuori, al contrario di quando ero piccolo io. Siamo diventati
pazzi! Come è possibile?
Vi prego non utilizzate le LIM! Fate giocare i bambini nei prati, fateli
rotolare e fategli mettere le mani nel fango, perché di solito non lo fanno. Il
computer non è negativo, ma oggi i bambini vivono solo in quello. Le proposte
alternative devono portare altrove.
L’85% dei bambini milanesi di quattro anni non sa che il latte che hanno
bevuto a colazione viene dalla mucca, ma tutti sanno accendere e spegnere il
computer. Allora quali sono i nuovi saperi? Non l’informatica, perché ce
l’hanno già, l’informatica rappresenta i vecchi saperi. I nuovi sono, ad
esempio, mungere una mucca.
La natura è anche violenza, ma è cattiva? La natura è natura, è cattivo
l’uomo che costruisce le case non antisismiche. Ma che razza di sviluppo
abbiamo pensato in Italia?
Sulla Luna l’impronta di Armstrong (il primo uomo ad avervi camminato
sopra) non sarà mai cancellata perché non c’è atmosfera e non c’è vento, mentre
invece l’aria porta via tutto, spazza via tutto. Noi siamo non permanenti e
allora possiamo provare a vedere altre arie. L’aria che respiriamo e senza la
quale moriamo è solo un pezzettino di universo, oltre l’atmosfera c’è altro.
Impariamo a vedere la Terra dal di fuori, impariamo a dire che la Terra è uno sputo
nell’universo e ci sono altre arie fatte di altro.
IL FUOCO
L’unico elemento che non possiamo toccare perché ci brucia. È l’elemento
dal quale siamo interdetti, proprio noi che siamo il culmine della creazione.
Un certo evoluzionismo e un certo creazionismo credono che l’uomo sia il
massimo, ma né Dio né Darwin l’hanno mai detto. In fondo la prima cosa che
l’uomo ha fatto è stata disobbedire.
Il fuoco, quarto elemento, segna il nostro limite e noi dobbiamo
accontentarci dei primi tre, anche se ci sono alcuni animali che sopravvivono
nel fuoco. E io che ho la ragione sono inferiore alla salamandra? In questo sì,
in altro no. L’uomo nuota molto peggio dello storione e corre più lento della
gazzella. Proprio perché il fuoco è l’elemento intoccabile, esso entra come
l’acqua in numerosi riti di iniziazione di diversi popoli, in riti di passaggio
legati soprattutto all’adolescenza.
L’acqua e il fuoco, i due elementi contrapposti, presidiano i riti di
passaggio – in particolare, il fuoco quelli del diventare
adulti.
All’inferno c’è il fuoco, il fuoco fa male e tutte le idee punitive e di
purificazione si servono del fuoco: ricordiamo il delirio nazista del rogo dei
libri, con la famosa frase: «Quando si comincia a bruciare i libri, si finisce
per bruciare gli uomini».
Però il fuoco non è soltanto questo, il fuoco è anche rassicurante. Gli
antropologi chiamano “fuochi” gli insediamenti umani. La terra senza uomo
sarebbe totalmente oscura (non ha senso porsi la domanda se sarebbe migliore o
peggiore). L’uomo ha portato la luce sulla terra, ma chi porta la luce?
Lucifero.
Il fuoco è l’elemento più lontano da noi e più pericoloso, ma quando
l’abbiamo addomesticato siamo diventati veramente umani e abbiamo dato un
grande contributo alla natura stessa perché anche gli altri animali di notte
possono vederci un po’ di più.
Cosa vuol dire addomesticare il fuoco? Sottomettersi al suo potere! Il
bambino quando si scotta impara che deve stare lontano dal fuoco e che rispetto
a esso egli è debole.
Il fuoco diventa anche il simbolo della memoria, come le candele di Yad
Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme. Qui alcune candeline si
rispecchiano e moltiplicano in una sala di specchi, mentre si ascoltano le
storie di milioni di bambini morti.
In conclusione: perché proprio questi quattro elementi? Perché, a
partire da Empedocle, gli esseri umani hanno pensato che i mattoni
dell’universo fossero aria, acqua, terra e fuoco?
Un’antropologa americana sostiene che siano state le donne a
individuarli, osservando che un cadavere se viene messo sotto terra si
dissolve, se è posto su una pira viene distrutto dal fuoco, oppure se è buttato
nell’acqua o lasciato su un albero va in putrefazione. Erano le donne, un
tempo, a occuparsi dei cadaveri e loro hanno rivelato quali sono i quattro
mattoni della morte e del dissolvimento dell’uomo, del vivente: acqua, aria,
terra e fuoco.
Noi siamo abituati a pensare che prima c’è la vita e poi c’è la morte,
ma dobbiamo probabilmente ribaltare questo concetto.
Tutte le grandi culture educano i bambini alla morte e hanno processi
educativi che mettono la morte al centro. Se non parliamo di morte, di cosa
dobbiamo parlare noi che siamo mortali? Non avremmo mai pensato alla
risurrezione se fossimo immortali. Non ci innamoreremmo se non fossimo mortali,
non faremmo figli se non fossimo mortali.
Ma quanto siamo consapevoli della mortalità, non solo nostra ma di
tutto?
Anche l’Oratorio estivo finisce e deve finire.
De Gregori canta: «Quando un bel giorno capiremo che non ritorna mai più
niente, ma finalmente accetteremo il fatto come una vittoria». Le cose non
tornano, il primo amore non torna, ma è una vittoria, non una sconfitta.
Riaffiorano alla memoria e poi spariscono di nuovo perché ce ne dimentichiamo e
ce ne andiamo.
Ciò che definisce la creatura è l’essere mortale: occorre che troviamo
un modo per affrontare questo tema anche in oratorio, attraverso giochi e
racconti. Chi ha fatto sport sa quanta “morte” porta subire il canestro
decisivo. Non leggera delusione, ma “morte”. Guardi il cronometro ed è finita.
È la finale, è da un anno che ti alleni e l’avversario tira da metà campo e
vince. Questo è lo sport! L’esperienza sportiva è anche esperienza della
sconfitta. Se il bambino piange un quarto d’ora nello spogliatoio sta vivendo
un’esperienza, poi viene consolato e si va a mangiare la pizza.
Non possiamo continuare a educare super uomini vincenti e forti,
arroganti. Ci sono i vincitori e i perdenti, non gli sconfitti. Se noi non
introduciamo la morte nei nostri processi formativi, non educhiamo l’umano ma
una funzione.
E poi mi domando, sul piano cristiano: il tema della morte nella vicenda
di Gesù su cosa si fonda? Se io non vivo la morte, se non ne ho paura, non ne
ho mai sentito parlare, e arriva un tale che parla di risurrezione, mi chiederò
cosa sia. Cosa rappresenta la risurrezione se non ho mai sentito la morte
dentro di me? In cosa questo giovane ebreo crocifisso è radicale? Introduciamo
elementi di morte!
La creatura è strappata dalla morte; come dice Freud negli ultimi suoi
scritti, mentre muore di un terribile tumore alla bocca, in fuga dai nazisti:
«In principio era la morte, se no Dio cosa crea?».
Ma allora il nulla chi l’ha creato? Il nulla non si crea, Dio sconfigge
il nulla. Ma per sconfiggerlo ci deve essere il nulla. Allora cosa è la vita?
La vita è un sasso gettato nello stagno che crea delle increspature, che crea
qualcosa al di sotto che non vediamo, finché a un certo punto tutto si ferma.
Prima c’è il nulla, dopo c’è il nulla; certo Cristo ci dice che non sarà
eterno, e in mezzo c’è la nostra vita: un arco tracciato tra il nulla e il
nulla.
Allora vuol dire che la vita è qualcosa di eccezionale, Freud dice che
«la morte è la norma, la vita è l’eccezione» ed è vero biologicamente: se
fossimo nati troppo vicini al sole, non saremmo nati o avremmo avuto delle
squame per proteggerci dal calore, oppure saremmo più pelosi se vivessimo più
lontani. Siamo qui perché siamo un punto di equilibrio precario.
Abbiamo parlato di elementi, e noi?
Noi siamo questo scimmione senza peli con gambe che non corrono tanto
veloci, non tanto bravi a nuotare, senza ali e senza zanne, senza artigli e
senza corazze e camminiamo in posizione eretta.
E dunque vediamo più lontano di tutti? No, ci sono animali che hanno una
vista migliore.
E dunque abbiamo sviluppato il linguaggio? Morfologicamente è vero, ma
chi ha un cane sa che ha anche lui un linguaggio chiaro e sincero.
E quindi abbiamo la mano libera per usare strumenti? Avete mai visto le
scimmie che leccano il bastoncino e lo mettono nel formicaio per mangiare più
formiche?!
Non sono queste le differenze. L’uomo cammina in posizione eretta e
dunque chiunque può prendere un coltello e metterglielo in pancia: la posizione
eretta ci rende l’animale più esposto di tutti al rischio e al pericolo. Un
animale così “fesso” da esporre le parti più delicate.
L’uomo è l’unico che porta le mutande perché essendo costituzionalmente
esposto sceglie di coprire le parti più, preziose e importanti. E allora l’uomo
è fragile, l’animale più fragile.
Noi siamo esposti ai quattro elementi, noi siamo l’animale più debole.
Essendo i più deboli, quando ce ne rendiamo conto costruiamo la cultura,
le filosofie, le religioni, l’arte per cercare di sopravvivere e di far vivere
bene anche gli altri, perché è vero che l’uomo è indifeso ma se incontra un
altro essere umano e si abbracciano, le due schiene fanno ognuna da riparo
all’altro.
L’abbraccio non è un riparare me, ma un riparare te. La mia schiena
intercetta il colpo che va alla tua pancia e viceversa. E se l’altro ha un coltello
nascosto? È un rischio ineliminabile! O diventiamo dei cinici o viviamo di
speranza e di fiducia, ma il nostro corpo non ci permette di essere cinici. La
fiducia è dentro di noi, dobbiamo fidarci, abbiamo bisogno dell’altro per
vivere.
Questo percorso parte dall’uomo e finisce all’uomo, ma l’uomo si è
sempre più indebolito.
Quale messaggio dare ai nostri ragazzi?
La debolezza è forza, la vera forza è nell’accettazione della propria
debolezza.
La fragilità è costitutiva dell’umano, non come qualcosa su cui
piangere, ma che fa parte della nostra vita, della vita di questo strano
animale la cui bellezza è nella precarietà.
Raffaele Mantegazza
Pedagogista (Università di Milano Bicocca)